di Don Alfredo Morselli, Stiatico di San Giorgio di Piano, 21 novembre 2010.
1 - Lo status quaestionis
Il testo del Padre nostro potrebbe subire un cambiamento: la traduzione classica della VI domanda “non ci indurre in tentazione” (Mt 6,13) verrebbe sostituita, seguendo così la nuova Bibbia CEI 2008, con “non abbandonarci alla tentazione”.
Perché
questo cambiamento?
Per evitare che qualcuno pensi che Dio possa
positivamente indurre qualcuno in tentazione, o essere Egli stesso causa
della tentazione.
Si tratterebbe veramente di uno scandalum mere receptum,
perché è molto facile ricordare, con San Giacomo, che “Nessuno, quando è
tentato, dica: "Sono tentato da Dio"; perché Dio non può essere tentato
al male ed egli non tenta nessuno” (Gc 1,13).
Sono
ben altri i passi difficili, che possono turbare la coscienza dei più
deboli; e, sempre in tema di una certa azione positiva e diretta di Dio
nella tentazione, è molto più problematico del nostro versetto quanto
troviamo in 2 Ts 2,11: “Dio perciò manda loro una forza di
seduzione, perché essi credano alla menzogna”. Grazie al cielo, qui
nessuno ha ancora pensato di cambiare il testo sacro.
Però
è anche vero che ogni scandalo, quando è possibile, va rimosso, perché
“non tutti hanno la conoscenza” e quindi “se un cibo scandalizza il mio
fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio
fratello” (1 Cor 8, 7. 13).
Questo
principio paolino, tutto informato dalla carità, va applicato anche
nella traduzione dei testi sacri; a patto però di non tradire il
significato del testo, di non contraffarlo; il che significherebbe
contrabbandare per Parola di Dio una povera parola di uomo.
E allora ci chiediamo: non abbandonarci alla tentazione è una traduzione esatta, vera, di et ne nos inducas in tentationem, che a sua volta traduce il greco καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν?
La nuova versione corrisponde a quello che ci ha insegnato Gesù?
2 - Cosa vuol dire "et ne nos inducas"?
La parola greca tradotta con ne inducas (μὴ εἰσενέγκῃς) è una voce del verbo εἰσφέρω, che vuol dire fare entrare dentro, introdurre.
Cosa significa questo?
Innanzi tutto, con il Padre nostro, noi non chiediamo di non essere tentati.
Sappiamo infatti che questo è impossibile; anzi, tanto quanto vorremo servire il Signore, tanto più saremo messi alla prova.
La Scrittura parla chiaro: “Perché tu eri accetto a Dio, bisognava che ti provasse la tentazione” (Tb 12, 13 Vg).
Altrettanto affermano i Padri: “La nostra vita in questo luogo di
esilio non può essere senza tentazione, perché il nostro avanzamento
avviene soltanto per la tentazione. Nessuno può arrivare a conoscere se
stesso finché non è tentato, né essere coronato senza aver vinto. Né
vince senza combattimento; né può combattere senza che vi siano nemici e
tentazioni ” (S. Agostino, In Psalm. LX).
E
San Leone Magno afferma: “Non si danno opere di virtù senza le prove
della tentazione, né fede senza agitazioni, né lotta senza avversari, né
vittoria senza combattimento. Se vogliamo trionfare dobbiamo venire
alla lotta” (Serm. I, de Quadrag.).
Se
dunque non si può chiedere di non essere tentati, dovremo chiedere di
vincere nella tentazione; e come si consegue questa vittoria? Non entrando nella trappola diabolica (la tentazione), rimanendo nell’amore di Gesù Cristo (Cf. Gv 15).
Chi cede alla tentazione cessa di rimanere in Dio (cf 1 Gv 4,15), e dimora nell’atmosfera diabolica: la tentazione è la porta aperta per uscire dagli atri del Signore per ritrovarsi in un paese lontano (Lc 15,13).
“Per
me un giorno nei tuoi atri è più che mille altrove, stare sulla soglia
della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi” (Sal 84,11). Peccare significa entrare, attraverso la porta della tentazione, in uno stato di vita lontano dal Signore, le tende degli empi.
Allora tutto ciò significa, forse, che con la VI domanda del Padre nostro, chiediamo al Signore di non indurci a lasciare il suo amore, la dimora in Lui, e che non ci faccia entrare nella dimora degli empi?
3 - Il sostrato semitico.
Con questa spiegazione, l’espressione et ne nos inducas in tentationem potrebbe essere un’occasione di scandalo ancora più pericolosa, perché sembrerebbe che Dio stesso ci possa spingere a entrare nel peccato.
A
questo punto ci viene in aiuto la grammatica ebraica e aramaica. Non
dobbiamo dimenticare infatti che Gesù ha insegnato il Padre nostro non
certo in greco, ma – e qui ci sono varie ipotesi – o in ebraico (nella
lingua colta dei farisei: cf. At 21,40; oppure nella lingua degli esseni di Qumram), o in aramaico (la lingua parlata in Palestina ai tempi di Gesù).
Ebbene,
in ebraico esiste la forma causativa, per cui, con una sola parola si
esprime ciò che in italiano o latino si esprime con una perifrasi.
Provo a spiegare con un esempio: attivo: mangiare; passivo: essere mangiato, riflessivo: mangiarsi; causativo attivo: fare mangiare; in ebraico fare mangiare si esprime con una parola sola, con una coniugazione particolare (detta Hiphil).
Questa
forma, al negativo, si trova ad avere due possibilità di traduzione,
determinate esclusivamente dal contesto. La particella negativa (’al = non) può negare o la causalità stessa o l’azione causata. Non ci indurre (<= lat. et ne nos inducas <;= gr. μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς) traduce l’ebraico ’al tebî’ênu (אל תביאנו o forme aramaiche analoghe)
’al = non tebî’ênu = facci entrare
’al tebî’ênu può essere tradotto con:
a) non farci entrare (nella tentazione): qui viene negata la causalità.
b) fa sì che non entriamo (nella tentazione): qui viene negata l’azione causata.
Tra gli studiosi che sostengono la traduzione b, troviamo Johannes Heller (1901), Jean Carmignac (1969, 1971) (“garde-nous de consentir a la tentation”):
quest’ultimo offre un lungo elenco di altri autori che interpretano,
pur implicitamente, in questo senso; ne riporto alcuni: Eliseo Armeno
(450), Riccardo di San Vittore (tra il 1153 e il 1162), il futuro
Innocenzo III (1195), T.H Robinson (1928), M. Zerwick (1953).
4 - Confronto tra le due opzioni
Se confrontiamo la proposta di Heller e di Carmignac (fa’ sì che non entriamo nella tentazione) con la nuova traduzione della CEI (non abbandonarci alla tentazione), possiamo vedere cha la prima è più corretta e presenta due vantaggi.
- Viene dichiarata una causalità divina positiva: Signore, agisci, fa’ sì che; Non abbandonarci richiama in modo più tenue l’azione divina, quasi che Dio venga richiamato da uno stato di non azione.
- Viene meglio espressa la teologia e la dinamica psicologica della
tentazione: l’uomo è - di fatto - necessariamente tentato. Il demonio
non può obbligare al peccato, può solo costruire una trappola; allora
chiediamo: Fa sì o Signore che io non entri colà dove il demonio mi apre le porte.
Al contrario, non abbandonarci alla tentazione
non è una traduzione, ma una interpretazione: purtroppo viene
dichiarato testo sacro ciò che – al più – potrebbe essere detto in una
nota esplicativa.
Conclusione
Cosa
ha fatto l’evangelista nel tradurre in greco le parole di Gesù
pronunciate in una lingua semitica (ebraico o aramaico)? È rimasto
umile, non ha voluto dare una sua spiegazione per l’uomo di quell’epoca,
ma ha tradotto letteralmente parola per parola, per rimanere il più
vicino possibile al verbo stesso del Salvatore, o a quella versione del Padre nostro che veniva già usata nella liturgia Eucaristica in età apostolica (Cf. la Didaché).
In poche parole non ha confuso la traduzione della Parola di Dio o di un testo liturgico con la catechesi.
Si
potrebbe obiettare che era più facile per un greco che viveva in
ambiente palestinese recuperare il senso del negativo causativo, di
quanto non possa fare l’uomo di oggi. Al che rispondo: all’uomo di oggi si possono dare spiegazioni; e se proprio si vuole cambiare un testo con la sua parafrasi, si dia almeno la parafrasi giusta.