Vi propongo una riflessione che va al centro di tutto la nostra Fede:
Il motivo del sacrificio di Gesù sulla croce.
Proposta da Cesaremaria Glori e pubblicata su Riscossa Cristiana.
Quella citazione non era perciò un disperato o affranto lamento di Gesù e, tanto meno, una sconsolata e impotente invocazione del Figlio rivolta al Padre.
Quella citazione di Gesù era rivolta ai Suoi crocifissori e, a futura memoria, per ogni altra persona per far capire che quel che stava accadendo corrispondeva in pieno a ciò che era stato predetto dal profeta.
Analizziamo questa frase che in aramaico suona: Eli, Eli, lemà sabàctany.
La traduzione greca di queste quattro parole è la seguente: θέε μου θέε μου ινατί με εγκατέλιπες che in italiano si dovrebbe tradurre con significato finalistico Dio mio, Dio mio, a questo fine mi hai abbandonato.
La vulgata latina di S. Girolamo traduce molto bene
Deus meus Deus meus ut quid derelequisti me che ha lo stesso valore finalistico e non causale della traduzione greca. Quell’ “ut quid”, soprattutto, rivela in modo preciso il suo valore finalistico e non causale.
Quella frase aramaica va quindi interpretata non in senso causale e, quindi non con significato interrogativo, bensì con significato affermativo.
Il che significa che Gesù, in quel momento, volle affermare e, contemporaneamente, chiederne conferma al Padre che si stava avverando l’evento della redenzione, cioè che Lui stava portando a compimento lo scopo della Sua missione.
Egli compiva quel sacrificio espiatorio che Yhwh aveva impedito ad Abramo di compiere su Isacco. Gesù in quel momento era la vittima predestinata dall’Altissimo per redimere la colpa del capostipite che mai aveva chiesto perdono del suo atto.
Atto che crocifiggeva l’intera umanità ad una esistenza con una natura irrimediabilmente guastata divenuta preda della concupiscenza animalesca.
Concupiscenza che condizionava l’intelletto e indirizzava la ragione verso la parte meno significativa della natura umana. Gesù, oltre che vittima, era in quel momento anche sacerdote. Sacerdote che immola se stesso abbandonandosi nelle mani di coloro che lo volevano morto e morto, per di più, con un supplizio infamante che ne rovinasse irrimediabilmente l’immagine che di Lui si erano fatta i suoi numerosi sostenitori e i discepoli.
Davide, nel salmo 22, implorava da Dio di chiarirgli il perché di tanta sofferenza nell’uomo ed ora, lì sul Golgota, l’Uomo-Dio dava la risposta, non all’uomo Davide soltanto ma a tutta l’Umanità, che quella sofferenza particolare dell’Uomo Dio, del Messia, riscattava l’Umanità intera dal suo misero destino di una eternità terrificante.
Non si pensi che questa interpretazione sia forzata, illogica e non collimante con il contesto del brano in cui l’intera frase aramaica è contenuta. Questa spiegazione è invece avvalorata dalle successive parole pronunciate da Gesù.
Sia il τετέλεσται greco che il consummatum est della vulgata latina significano letteralmente missione compiuta.
La traduzione italiana adottata dalla CEI con “Tutto è compiuto” risponde fedelmente sia al testo greco che a quello latino.
In tal modo i quattro evangelisti, ciascuno per la sua parte, trasmettono con esattezza quanto Gesù pronunciò sulla croce e che si rivela mirabilmente coerente, come se per comprendere con precisione quanto Egli disse occorra la partecipazione corale di più persone.
Gesù, pur nella atroce sofferenza in cui era immerso, non perse mai la sua lucidità sino all’ultimo istante. Aveva iniziato la sua marcia verso Gerusalemme rimproverando Pietro che lo voleva trattenere. I Vangeli ci narrano che irrigidì la sua fisionomia e iniziò con decisione il suo cammino verso la città santa senza alcuna esitazione.
Come Dio Gesù sapeva quel che lo attendeva e come uomo ne ebbe paura. Paura che scacciò invocando il Padre, quel Padre cui, all’ultimo istante, si rivolge affidandoGli il Suo spirito e prendendo commiato dal mondo: Padre nelle tue mani affido il mio spirito. Quali saranno le parole che Gesù pronuncerà al Suo ritorno? Tutto dipenderà da come il mondo gli si presenterà in quel momento.
In quel venerdì dell’anno trenta dell’era cristiana, negli ultimi istanti della Sua vita terrena, il Redentore affermò inequivocabilmente che la Sua missione era compiuta e il peccato originale eliminato come colpa ma non come conseguenza nella natura umana.
L’umanità era salva e gli esseri umani avrebbero continuato a soffrire e a morire come era avvenuto per il Cristo ma sarebbero risorti come Lui alla fine dei tempi.
Gesù compiva la redenzione adottando l’umanità a Dio per poi trasformare quell’adozione in Figli legittimi e non più adottivi alla fine dei tempi. Questa interpretazione trova corrispondenza con quanto contenuto con mirabile efficacia nel prefazio pasquale che così recita: Qui mortem nostram moriendo destruxit et vitam moriendo reparavit. La frase latina è così icasticamente efficace che non abbisogna di traduzione che ne mortificherebbe la bellezza.
La nostra natura umana guastata dal capostipite troverà la sostituzione all’ultimo giorno grazie al sacrificio dell’Uomo Dio che si è assunto tutto il peccato del mondo eliminando quella colpa che guastò irreparabilmente la nostra natura. Natura che Dio sostituirà ridandole la purezza originaria del progetto Uomo, quella purezza che il gran peccato aveva guastato e corrotto irrimediabilmente.
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