IL MOTIVO DELL’INCARNAZIONE E LA NOSTRA VITA SPIRITUALE
Nel giorno dell'Ascensione di Gesù al Padre, un'interessante studio sui motivi che hanno fatto "discendere" il Verbo per incarnarsi. La teologia medievale si era posta questo studio ne la scuola di S. Tommaso D'Aquino (domenicani) e la scuola del beato Duns Scoto (francescani).Ricordo che il teologo francescano fu fondamentale per Pio IX quando dovrà proclamare il dogma di Maria concepita senza peccato originale.
Personalmente amo molto l'ipotesi del teologo francescano Duns Scoto, ma sentiamo don Curzio (che tende più al tomismo) e le sue conclusioni sulla nostra vita spirituale.
di Don Curzio Nitoglia tratto da
https://doncurzionitoglia.wordpress.com/2015/12/04/motivo-incarnazione/
La tesi tomista e quella scotista
La convenienza dell’Incarnazione
Innanzi tutto occorre precisare che l’Incarnazione non è assolutamente necessaria, perché Dio avrebbe potuto riparare le rovine del peccato di Adamo in maniera diversa.
Tuttavia ipoteticamente, ossia supposta la riparazione secondo le norme della giustizia, nessuna creatura – neppure un angelo – poteva riparare l’offesa infinita del peccato perpetuata contro Dio che è infinito.
Quindi Dio ha voluto incarnarsi, dandosi il più possibile all’uomo ferito dal peccato originale e soffrire come uomo, dando alla sua sofferenza un valore infinito in quanto Dio.
San Tommaso insegna che “Il bene tende a diffondersi, a comunicarsi e quanto è più alto l’ordine cui appartiene tanto più abbondantemente e intimamente si comunica” (S. Th., III, q. 1, a. 1).
Ora Dio è il sommo Bene infinito. Quindi è conveniente che in potenza Egli tenda a comunicarsi.
Ma, mentre nell’agente determinato o non libero la diffusione o la comunicazione attuale del bene è necessaria (per esempio il sole necessariamente illumina e scalda), nell’agente libero (Dio, l’angelo e l’uomo) la tendenza passa all’atto liberamente e non necessariamente.
Perciò si reputa conveniente che Dio si sia comunicato liberamente in persona Filii ad una natura creata (la natura umana di Cristo) e ciò è avvenuto nell’Incarnazione del Verbo in cui il Figlio si è unito personalmente ad una natura umana.
Ciò non significa dimostrare la possibilità dell’Incarnazione poiché la sola ragione non può dimostrare né l’esistenza né la possibilità di un mistero soprannaturale, che sorpassa le forze di ogni natura creata, come dice la parola “sopra-naturale” ossia superiore alla natura.
Tuttavia la bontà e la tendenza di Dio a comunicarsi sono un motivo di convenienza o di non-impossibilità dell’Incarnazione e su questo punto non ci sono notevoli divergenze tra i teologi.
Il fine dell’Incarnazione
Il magistero professa solennemente che il Verbo “è sceso dal cielo e si è incarnato per noi uomini e per la nostra salute” (Credo niceno, DS 150). La S. Scrittura rivela che il Figlio è venuto nel mondo per salvare gli uomini. Già nell’Antico Testamento si legge che “il Signore verrà e vi salverà” (Is., XXXV, 4).
Nel Nuovo Testamento viene dato un nome al Verbo incarnato: Gesù che significa Salvatore, il quale indica il suo fine di Redentore: “Tu gli porrai nome Gesù, poiché è Lui che salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt., I, 21).Inoltre l’angelo annunciò ai pastori di Betlemme la nascita di Gesù con queste parole: “Oggi è nato a voi nella città di Davide il Salvatore” (Lc., II, 11).
Simeone ringrazia Dio per aver potuto vedere il Salvatore di tutti i popoli (Lc., II, 30).
San Paolo compendia l’opera di Cristo così: “Gesù Cristo venne al mondo per salvare i peccatori” (I Tim., I, 15); similmente il quarto Vangelo: “Dio ha mandato il suo Figlio nel mondo affinché il mondo sia salvato per opera di Lui” (Gv., III, 17).
La salvezza dell’uomo è rivelata come subordinata alla Gloria di Dio.
Infatti Gesù stesso confessa al Padre: “Ti ho dato gloria su questa terra, compiendo l’opera (della Redenzione) che Tu Mi hai dato da compiere” (Gv., XVII, 4). Mai, in nessun luogo della S. Scrittura si dice che l’Incarnazione sarebbe avvenuta anche senza il peccato originale.
Controversia sul motivo dell’Incarnazione
Secondo la scuola tomista il motivo dell’Incarnazione del Verbo è la Redenzione. Quindi, nella presente economia della salvezza, se Adamo non avesse peccato il Verbo non si sarebbe incarnato. Invece per la scuola scotista il motivo dell’Incarnazione è la glorificazione di Dio. Quindi il Verbo si sarebbe incarnato anche se Adamo non avesse peccato. Tuttavia avrebbe assunto un corpo impassibile poiché non ci sarebbe stata la necessità della Redenzione dell’uomo, ma solo la glorificazione di Dio. Secondo l’Angelico (S. Th., III, q. 1, a. 3), nel presente disegno della Provvidenza o in questo piano dell’economia della Salvezza, se Adamo non avesse peccato, il Verbo non si sarebbe incarnato, ma dopo il peccato originale il Verbo si è incarnato per offrire a Dio una soddisfazione adeguata al nostro riscatto.La ragione teologica per cui san Tommaso insegna questa dottrina è che ciò che dipende dalla volontà di Dio e supera completamente la natura creata lo si può conoscere solo tramite la divina Rivelazione (contenuta nella Tradizione e nella S. Scrittura).
Ora nella Rivelazione la ragione dell’Incarnazione è desunta dal peccato originale. Quindi è più conveniente dire che se Adamo non avesse peccato il Verbo non si sarebbe incarnato, ma che dopo il peccato originale Egli si è incarnato per offrire a Dio una soddisfazione adeguata per salvarci.
La S. Scrittura, come abbiamo visto sopra, insegna ciò.
Nel Vangelo di S. Luca (XIX, 10) si legge: “Il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perso”.
Lo stesso si legge in Mt., XVIII, 11; 1a Tim., I, 15; Gv., III, 17.
La Tradizione è concorde su questo motivo.
Infatti S. Agostino (Sermo 174, n. 2; 175, n. 1) scrive: “Si homo non periisset, Filius hominis non venisset / se l’uomo non si fosse perduto il Figlio dell’uomo non sarebbe venuto”.
La stessa dottrina è insegnata da S. Ireneo (Adv. haereses, V, 15, n. 1) e da S. Giovanni Crisostomo (In Epist. ad Hebr., Omelia 5, n. 1 ), da S. Ambrogio (De Incarnatione dominicae sacramento, I, 6, 56), da S. Leone Magno (Enarrat. in Psalm. CXIX, 2; Sermo LXXVII de Pentecoste, III, 2), da S. Gregorio Nazianzeno (Oratio trigesima sexta, 6; Oratio trigesima octava, 5) e da S. Atanasio (Adversus Arianos, Oratio secunda, 56).
Duns Scoto (Reportata parisiensia, III, 7, 4, n. 5) invece sostiene che se Adamo non avesse peccato, nel piano attuale della Provvidenza, il Verbo si sarebbe incarnato egualmente per manifestare la bontà divina, ma non avrebbe assunto una natura soggetta al dolore e alla morte. Tuttavia è sorprendente che in nessun passo della S. Scrittura si faccia parola della venuta di Cristo, prevista ab initio, in carne impassibili. Certamente San Paolo rivela che l’intera creazione è ordinata a Cristo come fine (Col., I, 15-19). Tuttavia il versetti 15-17, di cui Scoto si serve come fondamento per la sua tesi, prescindono completamente dall’Incarnazione e parlano soltanto di Cristo in quanto Dio come Creatore di tutte le cose, fine della creazione e conservatore del mondo.
I tomisti (specialmente Capreolo e Tommaso de Vio) rispondono a Scoto che il fine ultimo dell’Incarnazione è la manifestazione della bontà divina tramite la Redenzione, che son due fini subordinati (l’Incarnazione alla Redenzione).
Quindi l’obiezione scotista secondo la quale il fine è superiore al mezzo (concedo) e pertanto l’Incarnazione non può essere finalizzata alla Redenzione o alla salvezza dei peccatori, non sta in piedi in quanto la Redenzione è il fine prossimo e non ultimo dell’Incarnazione.
Il Credo di Nicea insegna che il Verbo si è incarnato “propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis / per noi uomini e per la nostra salvezza”.
I Padri ecclesiastici (S. Ireneo, S. Giovanni Crisostomo, S. Agostino) hanno commentato il Credo in questo senso: “si homo non peccasset, Filius hominis non venisset / se l’uomo non avesse peccato il Verbo non sarebbe venuto su questa terra”. Scoto sostiene che il Verbo sarebbe venuto egualmente (anche se l’uomo non avesse peccato), ma non in una natura passibile (“venisset, sed non in carne passibili”).
Se così fosse l’insegnamento comune dei Padri latini e greci, sicut litterae sonant, sarebbe erroneo (ma ciò non è possibile, infatti il consenso moralmente unanime dei Padri su questioni di fede è segno di dottrina infallibilmente certa).
In breve Dio ha permesso il peccato di Adamo per un bene superiore che è l’Incarnazione redentrice subordinata alla manifestazione della bontà divina, che da ogni male trae un bene superiore.
S. Tommaso lo insegna chiaramente: “Dio permette che avvengano i mali per tirarne un bene maggiore” (S. Th., I, q. 19, a. 3, ad 3). Capreolo lo conferma (In IIIum Sent., dist. I, q. 1, a. 3) e pure il Gaetano (In Iam, q. 22, a. 2, n. 7). La S. Scrittura lo rivela: “ove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rom., V, 20) e la Liturgia, nell’Exultet della Viglia pasquale, lo canta: “O felix culpa, quae talem ac tantum habere meruit Redemptorem ”.
Ora agli scotisti, i quali ritengono sconveniente il fatto che il peccato, odiato da Dio, sia l’occasione per l’Incarnazione che è la manifestazione più stupenda di Dio, i tomisti rispondono citando proprio l’Exultet della Viglia di Pasqua, che ci dà una prova ancora più grande dell’amore misericordioso di Dio, il quale vuol salvare anche ciò che sarebbe degno di perdizione.
Quindi è chiaro che il motivo dell’Incarnazione del Verbo è un motivo di misericordia, con cui si manifestano anche la bontà e la onnipotenza divina, come insegna la Liturgia: “Deus qui maxime parcendo et miserando omnipotentiam tuam manifestas” per cui l’ultimo fine dell’universo è la manifestazione della bontà di Dio.
L’ordine delle cose voluto da Dio, secondo l’Angelico, è il seguente:
- l’universo intero con tutte le sue parti;
- le sue parti fra loro coordinate: la natura, la grazia (col permettere il peccato di Adamo e la perdita della grazia) e l’Incarnazione del Figlio;
- la Redenzione come il fine dell’Incarnazione.
Quindi noi uomini siamo subordinati a Cristo e Cristo come Verbo Incarnato a Dio (cfr. I Cor., III, 23). È evidente che Cristo è superiore all'umanità in quanto causa della sua Redenzione e salvezza, causa esemplare o modello di ogni santità e fine cui l’umanità è subordinata.
Perciò Dio ama Cristo più di tutto il genere umano, di tutti gli angeli e di tutto l’universo creato perché Cristo è vero Dio e quindi infinitamente superiore al creato (cfr. S. Th., I, q. 20, a. 4, ad 1).
Il fatto, poi, che la SS. Trinità ha permesso l’Incarnazione del Verbo per la salvezza dell’uomo non solo non ha diminuito per nulla la sua dignità infinita di Persona divina, anzi proprio per questo il Verbo è divenuto il Vincitore glorioso. Questa eccellenza e questa gloria vincitrice del Verbo Incarnato non si oppongono per nulla al fatto che il Figlio si è incarnato, come insegna la Rivelazione e il Magistero, per la nostra salvezza: Qui (Verbum) propter nos homines et propter nostram salutem descendit de coelis et incarnatus est.
L’Incarnazione redentrice e la nostra vita spirituale
Per quanto riguarda la nostra vita spirituale possiamo concludere che- il motivo dell’Incarnazione fu la Misericordia;
- il Verbo incarnandosi non si è subordinato all'uomo, ma ha ristabilito l’ordine primitivo elevando di nuovo l’uomo all'ordine soprannaturale che aveva perso col peccato di Adamo;
- Gesù, nella sua vita intima, è innanzi tutto Salvatore (sacerdote che offre come vittima a Dio Se stesso sulla croce e nella messa).
Per farci santi dobbiamo imitare Gesù Cristo. Ora, in questo piano di salvezza in cui ci troviamo, Egli non è principalmente e essenzialmente (come vorrebbe Scoto) Re dei re, dottore supremo, capo del regno di Dio sulla terra. Quindi il motivo dell’Incarnazione fu la Misericordia redentrice per rialzare l’umanità decaduta dalla sua miseria. Perciò Gesù è principalmente Salvatore, sacerdote e vittima più che Re di gloria e corona del creato, e questo è il tratto più importante della sua fisionomia spirituale. Dio ha previsto e decretato ogni cosa ab initio e se ha permesso il male del peccato adamitico lo ha fatto solo perché ne avrebbe tratto un bene maggiore: l’Incarnazione del Verbo, la Redenzione dell’umanità subordinata alla Gloria di Dio.
Il decreto o il piano divino sul mondo o l’attuale piano divino era esteso sin dal primo momento a tutto ciò che doveva accadere, in modo positivo al bene e in modo permissivo al male: “Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare ciò che era perduto” (Lc., XIX, 10). È molto consolante per noi pensare che non solo i grandi dottori, i re, i capi, ma anche i più grandi peccatori pentiti che invocano il Salvatore possono trovare la salvezza attraverso la via che il Verbo ha seguìto: la via regale della santa croce. In tal modo Dio non si è subordinato e sottomesso in un certo qual modo all'uomo, ma Egli rimane, nonostante si sia incarnato, infinitamente superiore a tutto il creato e alla salvezza di tutti gli uomini.
L’Incarnazione è più preziosa della nostra Redenzione. Per di più Egli si è chinato sino a noi per innalzarci sino a Lui e questa è la proprietà della Misericordia: che il superiore si chini verso l’inferiore, non per subordinarsi a lui, ma per innalzarlo a Sé.
L’Incarnazione è la più alta manifestazione della Potenza di Dio e della sua Bontà.
L’Incarnazione canta la gloria di Dio più di tutto il firmamento.
Tutta la vita del Verbo Incarnato è ordinata alla sua morte in croce che piace a Dio più di quanto non gli dispiacciano tutti i peccati del mondo (cfr. S. Th., I, q. 20. a. 4, ad 1).
Ecco perché nessuna idea o movimento cristiano potrà imporsi e portar frutti se non dopo aver superato molte prove: “Se il chicco di frumento, gettato a terra, non muore, rimane com'è, ma se muore porta frutto buono e abbondante ” (Gv., XII, 24).
“La necessità della croce è proporzionata al grado di gloria al quale Dio vuol condurci. Alcune anime che chiamiamo a torto, con un senso di compassione, ‘tormentate’, vivono in mezzo a sofferenze quasi continue perché Gesù vuole condurle molto più in alto di altre anime non tormentate e facilmente contente. Più Dio ci ama più le croci che ci manda sono pesanti ” (R. Garrigou-Lagrange, Vita spirituale, Roma, Città Nuova, 1965, p. 172, postumo). ~